“Abbiamo il cuore triste per le tante morti che ci sono state e per questo motivo i nostri compaesani di Canchis stanno andando a Lima. Per me è come se fosse partito un figlio o un fratello, e solo spero che ritorni. Questo sentire non è solo mio, questo sentimento è il sentire di tutti per colpa del sistema”.
Così ci scriveva Nelly della cooperativa Adianes, nella regione di Cusco, il 18 gennaio alla vigilia della grande manifestazione che, il giorno successivo, ha portato a Lima migliaia di persone da molte regioni del Perù. Tante persone umili, delle comunità e delle province andine, che hanno marciato per le strade della capitale chiedendo risposte politiche e cambiamenti istituzionali. Una protesta che continua ancora in questi giorni, e continuerà ancora nei successivi, a Lima e in tante città del paese, purtroppo anche con scontri con le forze dell’ordine.
La rete ISCOS, da anni, è impegnata nel sostenere organizzazioni della società civile e associazioni di produttori di camelidi sudamericani, soprattutto nelle aree andine di Cusco, Apurimac, Puno, Arequipa e Ancash. Proprio in questi giorni abbiamo incontrato a Bologna Carlos Herz, direttore del Centro Estudios Regionales Andinos ‘Bartolomé de las Casas’ di Cusco, nostro partner principale nel progetto sui difensori dei diritti umani e ambientali nel cosiddetto ‘corridoio delle miniere’ del sud, vale a dire le regioni di Cusco e Apurimac.
Forse non tutti sanno che il Perù è il paese al mondo di gran lunga più coinvolto nel land grabbing (l’accaparramento delle terre), con oltre 16 milioni di ettari (in alcune regioni oltre il 40% del territorio è soggetto a concessioni minerarie, prima fra tutte proprio Apurimac), seguono a distanza altri paesi latinoamericani (Brasile e Argentina), asiatici (Indonesia), dell’Europa orientale (Ucrania) ed africani (Sud Sudan, Mozambico, Liberia e Madagascar), come ci riporta il report della FOCSIV ‘I padroni della terra’. https://www.focsiv.it/wp-content/uploads/2022/06/LG2020-5ED-21.06.2022-WEB.pdf
Durante il recente incontro, Carlos Herz ci confermava l’opinione diffusa di quanto questa protesta sia spontanea e proveniente dal basso. Non vi troviamo, infatti, rappresentanti politici né partiti, che in Perù effettivamente non esistono più in forma strutturata e radicata sul territorio. Ma a coordinare e stimolare la protesta non ci sono neppure organizzazioni e movimenti sociali o sindacali. Una protesta che ha stupito molti analisti locali e internazionali per la velocità con cui si è propagata e per la partecipazione con cui si è manifestata a partire dal 7 dicembre 2022, giorno del fallito auto-golpe tentato dall’ex-Presidente Castillo e della sua immediata rimozione e incarcerazione.
La crisi politica e istituzionale nel Paese è profonda ormai da molti anni: ben 7 Presidenti in sei anni, quando ogni mandato presidenziale dovrebbe durare cinque anni). Anche nel caso di Castillo, un mandato chiuso male per l’auto-golpe, ma anche per le pesanti accuse di corruzione che, peraltro, riguardano anche molti esponenti politici del Parlamento. La protesta in atto non è dovuta tanto alla popolarità e al consenso verso l’ex-Presidente Castillo, quanto contro un sistema politico -istituzionale screditato e contro i suoi rappresentanti non in grado di esercitare responsabilmente il mandato ricevuto, tantomeno di governare il paese.
Ci sembra necessario esprimere il nostro rifiuto e la condanna più forte alla terribile repressione, che fin dai primi giorni le forze dell’ordine hanno attuato contro le proteste spontanee di migliaia di persone nelle aree più povere, isolate e marginali del Paese. Proteste che chiedono l’apertura di una nuova fase di transizione e di una fase elettorale che possa portare al rinnovamento di tutte le cariche e degli organismi dello Stato, che hanno dimostrato la loro inadeguatezza nella gestione del governo, tanto più della difficile crisi politica e istituzionale delle ultime settimane. Una repressione violenta nei modi e nella rappresentazione che ne danno alcuni organi di informazione controllati dai gruppi di potere ed economici del paese. Giustificare l’utilizzo violento della polizia e dell’esercito dipingendo i manifestanti come terroristi, sta radicalizzando sempre di più le posizioni in campo e polarizzando il paese senza far emergere proposte condivise e vie di uscita.
Noi che vediamo il Perù attraverso gli occhi e le parole della persone con cui lavoriamo da anni, che vivono nelle regioni di Cusco, Apurimac e Puno, e che abbiamo visitato le comunità andine rurali e quelle degli allevatori di alpaca e lama, non riusciamo a non sentire la frustrazione e la rabbia che questa gente può provare nel vedere, ancora una volta, la politica esaurirsi in lotte di palazzo, giochi di potere e corruzione senza dare risposte concrete a favore dei propri cittadini più bisognosi. La protesta più forte viene proprio da quelle regioni dove la cultura originaria, quechua e aymara, è maggiormente diffusa e radicata. Quelle zone verso cui si concentra il disprezzo e il razzismo del pensiero dominante e istituzionale, espresso dall’oligarchia al potere residente nella capitale.
Ci associamo così a quelle organizzazioni della società civile peruviana, tra queste il ‘Centro Bartolomé de las Casas’ e a quelle organizzazioni internazionali come le Global Unions, la Confederazione Sindacale delle Americhe (CSA) e la UGT spagnola, nella richiesta di porre fine immediatamente alla repressione violenta delle manifestazioni popolari e aprire spazi di dialogo istituzionale e politico. Le richieste legittime della popolazione devono essere ascoltate per garantire una nuova fase democratica per il Perù, con l’obiettivo di traguardare le elezioni anticipate già nel 2023.
Purtroppo in Perù, come abbiamo avuto modo di osservare in questi anni, si è acuita la criminalizzazione e la persecuzione dello Stato, spesso violenta, nei confronti di coloro che difendono il territorio e l’ambiente in cui vivono dalle conseguenze delle attività delle imprese minerarie. Siamo ancora una volta profondamente colpiti dal livello di violenza ed esprimiamo la nostra solidarietà alle famiglie delle persone uccise (53 a oggi) e ferite durante gli scontri. Siamo solidali anche verso le tante persone che in queste settimane stanno perdendo il posto di lavoro o la prospettiva di una vita dignitosa in un contesto pacifico e democratico.
Andrea Cortesi, direttore di Iscos Emilia Romagna