Articolo scritto da Matteo Finco
I ribeirinhos dell’Amazzonia sono una delle popolazioni tradizionali ufficialmente riconosciute dallo Stato brasiliano: i loro membri vivono ai margini dei fiumi, spesso in case di legno sopraelevate, in piccoli villaggi a ore di viaggio dai centri urbani. In questi mesi la vita in contesti simili è cambiata più che altrove: la possibilità di guadagnare qualcosa con agricoltura e piccolo commercio è sempre più precaria, visto che quasi tutto, dalle scuole ai mercati, è fermo.
La sopravvivenza – come racconta un reportage del 12 luglio della Folha di San Paolo, il principale quotidiano del paese – è legata all’ausilio di 600 reais che il governo ha approvato a favore di disocuppati, lavoratori informali e micro-imprenditori, e all’attività di Ong che distribuiscono la “cesta basica” alimentare alle famiglie più disagiate.
La minoranze in epoca di pandemia soffrono naturalmente ancor più del solito: a una vita già “minima”, allo scarso interesse della politica, dei media e dell’opinione pubblica, si aggiunge il pericolo di un virus contro cui si è disarmati. L’assistenza sanitaria di base, tutto sommato disponibile nelle città più grandi anche per gli indigenti, è quasi un eufemismo. Come racconta lo stesso reportage della Folha, certi villaggi ricevono una volta ogni tre mesi la visita del personale sanitario, che magari si limita a distribuire medicinali contro i vermi intestinali.
Nello Xingu (nel nord-est del Mato Grosso), area indigena protetta creata negli anni ’60 dall’opera dei fratelli Villas-Bôas, attivisti leggendari, il virus è arrivato a giugno. I 16 popoli (7mila abitanti in totale) hanno deciso, per la prima volta in cinquant’anni, di cancellare il Kuarup, la celebrazione rituale più importante, eseguita in omaggio agli antenati. Nonostante quella della Xingu sia una riserva, gli abitanti non sono del tutto isolati e si spostano nei centri abitati vicini per comprare beni di prima necessità e benzina o visitare dei parenti. Da qui il pericolo dei contagi.
Si tratta soltanto due esempi, e quella delle minoranze è ovviamente la situazione più precaria in assoluto. Tuttavia se il Brasile è attualmente il secondo paese al mondo per numero di morti (oltre 71mila) a causa del Coronavirus, con un milione e 839mila casi confermati, ciò dipende dall’assoluta inadeguatezza delle misure prese per contrastarlo. La struttura federale del paese ha fatto sì che ogni Stato si muovesse indipendentemente dagli altri, con decisioni scarsamente conformi e in generale timide. Non poteva essere diversamente, visto che fin dall’inizio il presidente Jair Bolsonaro ha minimizzato, dicendo che l’economia non poteva fermarsi, che si trattava soltanto di una gripezinha (un’influenzetta) e che se in Italia si moriva molto, era perché è un paese di anziani. L’apice forse lo ha toccato quando ha risposto di chiamarsi Messias di secondo nome, ma non per questo era in grado di fare miracoli. Alla fine il virus ha contagiato anche lui, nonostante avesse detto che con il suo “passato di atleta” (in realtà, prima della pluridecennale carriera politica, è stato un capitano dell’esercito) non correva pericoli.
Naturalmente le spacconate di un presidente che fin dall’inizio ha dimostrato di non interessarsi ai più deboli, alle minoranze, all’ambiente, alla tutela della salute e dell’istruzione pubblica, ma soltanto a compiacere il suo elettorato (imprenditori, possidenti terrieri, gruppi religiosi conservatori), servono solo a dare un’idea di quanto il paese viva già normalmente una sorta di dissociazione: da un lato i poveri (il 50% della popolazione – circa 104 milioni di persone – si limita a sopravvivere con 413 reais – meno di 100 euro – al mese) senza voce, che sopravvive – quando ce la fa – del lavoro informale; dall’altra quella che viene definita la “classe media”, una categoria molto fluida, in cui si includono coloro che guadagna il “salario minimo” di circa mille reais (duecento euro) fino ai professionisti che vivono negli appartamenti con sorveglianza h24 e viaggiano in Europa o negli Usa tutti gli anni. Questa spaccatura è solo la più evidente di un paese in cui ancora è difficile se non impossibile rinunciare al concetto di classi sociali, in cui l’etnia è un determinante fondamentale delle possibilità di studio e carriera, in cui ancora una larga parte della popolazione sopravvive con una dieta quotidiana di riso bianco bollito mischiato a fagioli neri. Un paese in cui le reazioni di protesta si riducono spesso alla voce flebile di altre minoranze, come l’élite intellettuale progressista che raccoglie appelli su quotidiani e internet, rivendicando lo Stato di diritto (quello che ha avuto più risonanza finora è Brasil pela Democracia e pela Vida), e una parte della “società civile”, con un’istruzione più elevata della media, che ogni tanto, oltre alle estemporanee manifestazioni sui balconi in cui si battono padelle al grido “fora Bolsonaro”, scende a marciare in strada. Troppo poco, per un paese che fino a qualche anno fa cresceva a ritmo costante, un paese cosiddetto “in via di sviluppo”. Uno sviluppo che si riduce sempre più all’aspetto meramente economico, mettendo a repentaglio il ricchissimo patrimonio naturale (non soltanto l’Amazzonia, ma anche la grande savana tropicale del Cerrado e molto altro ancora), riducendo l’investimento pubblico in salute al 3,9% del PIL (ben al di sotto del 6% raccomandato dall’OMS), e disinteressandosi di qualsiasi “bene comune” e dei suoi stessi cittadini.