Il Senegal al tempo del Covid-19


Articolo di Vanessa Marchese

«So oubi wé Coran bi si verset bobou digua feu giss bene karaw so nguissé karaw bobou ngua dougeul ko si ndokh…dara douleu lale / Se apri il Corano alla pagina di un certo versetto e trovi un capello e lo metti nell’acqua… sarai protetta», dice Fatou, con gli occhi lucidi e sicuri di chi ha la verità in tasca.
«Tu l’hai trovato, il capello?», le chiedo.
«No… forse non ho cercato bene – risponde –, ma mio cugino e il suo amico l’hanno trovato. Comunque se non lo trovi puoi andare da un buon marabout, lui ti prepara una bottiglia per farti i bagni e così ti proteggi». Fatou è in giro per un tour de famille con il marito e i due figli. Sono andati a trovare dei cugini a Mermoz, un quartiere bene della capitale senegalese. La strada è stretta, le auto sono posteggiate tutte dallo stesso lato per lasciare lo spazio al traffico di persone, carretti e veicoli. La casa di due piani, costruzione recente, ha un bel cortile interno riempito di sedie: i cugini di Ouakam (altro quartiere), la zia che vive a Rufisque (comune appena fuori Dakar), il fratello con le due mogli che sta a Mbao (poco prima di Rufisque) sono tutti riuniti per questa visita famigliare itinerante.
I primi casi e le prime risposte.
In Senegal a inizio marzo sono stati diagnosticati i primi casi positivi al nuovo coronavirus. La malattia è stata “importata” da turisti e/o residenti francesi, quando ancora in Francia il Covid-19 era sottovalutato e sembrava solo un problema italiano. Il 13 marzo, il presidente della Repubblica senegalese Macky Sall, con un decreto, ha vietato tutti gli assembramenti, chiuso le scuole, sospeso la vita burocratica del Paese. Durante le prime settimane, il divieto di assembramento non è rispettato: si continuano a fare le feste per i battesimi e i matrimoni e i tours de famille come quelli di Fatou, gli studenti con le scuole chiuse vanno al mare e a Touba le moschee restano aperte.
Il 23 marzo è stato dichiarato lo stato d’urgenza: coprifuoco dalle otto di sera alle sei del mattino, vietati gli spostamenti tra le regioni, limiti al numero di persone trasportate sui mezzi pubblici, che di solito sono straripanti. I primi giorni sono stati segnati da atti di violenza della polizia e dall’indisciplina di alcuni.
Sedare gli animi, far digerire le nuove regole ha richiesto una paziente opera di mediazione: da parte dei capi di quartiere, per far calmare i giovani la sera durante il coprifuoco; e da parte di quelli religiosi per convincere la gente a pregare in casa.
 Nello stesso periodo, altri Stati della sotto-regione hanno dichiarato lo stato d’urgenza: Costa d’Avorio, Burkina Faso, Mali, Guinea.

Le parole e le mani (pulite) del presidente.
Durante il discorso rivolto alla nazione per la Festa dell’Indipendenza, il presidente Macky Sall ha annunciato una serie di provvedimenti: facilitazioni sul pagamento delle tasse per le imprese che non licenziano e che pagano almeno il settanta per cento dello stipendio ai loro dipendenti; una pioggia di miliardi per la sanità; un aiuto per il pagamento delle bollette di acqua e luce per le famiglie più indigenti; uno slittamento di un anno per il pagamento della Tva (Iva); un programma di approvvigionamento in idrocarburi e alimenti di prima necessità. Lo stato d’urgenza è stato prolungato al 4 maggio.
In questo Paese come altrove, la grande sensibilizzazione passa dalla televisione e dalle radio. I cantautori, molto ispirati, hanno già scritto una dozzina di canzoni sull’argomento. In brevi e frequenti spot che passano nei canali televisivi nazionali, l’allenatore della Nazionale di calcio senegalese ci dice di fare attenzione al Covid-19 e il presidente mostra come lavarsi le mani. In completo scuro, cravatta e camicia bianca, Macky si insapona le mani, strofinandosi bene le dita.
In Senegal, quel che non ti ammazza ti rende più forte. Nonostante si muoia ancora di tetano, diabete, patologie alla tiroide… a causa del costo delle cure, per molti inaccessibile, per ostacoli logistici e per una questione culturale (ci si rivolge più facilmente al marabout guaritore che al medico), il Senegal ha risposto con immediatezza e decisione alla pandemia in corso. All’ospedale di Fann, il Capo del servizio malattie infettive, il professor Moussa Seydi, ispirato dal lavoro dell’infettologo Didier Raoult (Marsiglia), utilizza l’hydroxychloroquine per il trattamento dei malati da Covid-19. A Dakar si trova anche l’Istituto Pasteur, rinomato centro di ricerca biomedicale designato dall’Unione Africana come uno dei due centri di riferimento in tutto il continente per la ricerca sul nuovo coronavirus.
A un mese dalla diagnosi del primo caso positivo, è stata effettuata una media di cinquanta tamponi al giorno, un numero molto basso, che il Ministero della Sanità vorrebbe portare a mille. Più di duecento casi sono risultati positivi, ma quasi un quarto dei malati è guarito rapidamente. Si registrano due decessi: l’ex presidente dell’Olimpyque Marseille, il giornalista Pape Diouf, e la titolare di un fast food molto frequentato.
Uno sguardo al Paese.
Il Senegal – giova ricordarlo – è una repubblica presidenziale stabile, un Paese laico a maggioranza musulmana, francofono, ex colonia francese. Il clima, la stabilità politica, la religione islamica che si sposa con l’animismo, la tolleranza tra etnie e religioni sono il punto di forza di questo Paese, che è sede di tante istituzioni internazionali.
Nelle regioni interne fa molto caldo, ma Dakar, la capitale, è una penisola piacevolmente ventilata otto mesi all’anno; gli altri quattro sono quelli della stagione delle piogge, calda e umida. Dakar è un agglomerato di traffico, di vecchie auto che sembrano stare insieme con il nastro adesivo, di 4×4 superlussuose, di ville sull’oceano, di case costruite già storte e di altre che sono per metà sottoterra perché la sabbia le ha inghiottite.
Il Senegal è un Paese in via di sviluppo, ha un tasso di crescita economica invidiabile, ma la povertà è stagnante: lo stipendio medio di un operaio è di circa 150 euro. Un chilo di riso, l’alimento più consumato, costa circa 0,50 euro. Un litro di olio di semi, 2 euro. Una piccola bombola del gas per la cucina, quelle che in Italia si usano per il campeggio, circa 5 euro. Gli affitti hanno prezzi esosi, ma nelle capitali africane funziona quasi sempre così: troppi stranieri che spendono soldi con facilità, e chi vive con stipendi locali ha difficoltà a stare a galla.
Più della metà dei circa 16 milioni di abitanti ha meno di diciotto anni. Le scuole pubbliche sono super affollate e sgarrupate, c’è un alto tasso di analfabetismo. In ospedale paghi tutto. La sanità pubblica, gratuita e accessibile è uno degli obiettivi del governo attuale. Per il Paese sono sparsi un centinaio di ospedali e diversi ambulatori, la maggior parte dei servizi sono concentrati nella capitale. Si muore ancora di parto, ma molto meno che dieci anni fa. C’è la poligamia, pratica ancestrale, antecedente all’islam. La legge consente fino a quattro mogli.
 Mettete insieme stipendi bassi, caro vita, famiglie numerose, sanità a pagamento, assenza di ammortizzatori sociali, e aggiungeteci la minaccia del Covid-19.

Il fornetto di Awa e il lavoro informale.
Awa ha cinquant’anni ma ne dimostra di più. Cinque figli, uno morto per «la volontà di Dio» quando era ancora piccolo. Il foulard sulla testa copre i pochi capelli. Sta seduta su uno sgabello basso di legno, sul marciapiede di una strada che fino a qualche giorno fa facevi fatica ad attraversare senza sfiorare qualcuno. La paura, gli inviti a stare a casa, gli uffici con orario ridotto, e le attività già chiuse per la crisi hanno reso questa strada polverosa calma e silenziosa.
Awa ha un fornetto di ferro pieno di cenere, sabbia e noccioline. Smuove le noccioline (gherte thiaf) con un mestolo di ferro bucato, per farle abbrustolire. Vende un pacchetto di noccioline, piccole e gustose, a 25 franchi Cfa: per incassare mezzo euro deve venderne più di 12. Con il vestito largo dello stesso colore del foulard, gli occhi stanchi e un bastoncino di legno che tiene all’angolo della bocca, lavora su quel marciapiede dal primo pomeriggio fino a Timiss, l’ora della preghiera della sera. Awa, come molti altri, fa parte del mondo dell’informale. Nessuna Ninea (partita iva), nessun certificato di camera di commercio, nessuna busta paga. Lei non esiste in nessun archivio, nessun registro, ma con la sua attività, da anni, riesce a portare a casa il riso e lo yaboy, una sardina locale, per tirare avanti un giorno sì e uno no.
«Mio marito dieci anni fa mi ha regalato questo fornetto, mi ha detto: “Ora vai a lavorare”. Il mio secondo figlio aveva pochi giorni, me lo sono messo sulla schiena ben fasciato e ho iniziato a vendere in strada. Tre settimane dopo, si è preso un’altra moglie», racconta Awa.
In questi giorni vende di meno, ma poco è meglio di niente.
 Si fa sera. Awa prima di tornare a casa prega in ginocchio sul suo tappeto, poi in un lenzuolo avvolge il forno e la mezza zucca secca dove tiene le bustine di plastica per le noccioline. «Per oggi è andata, domani sarà la volontà di Dio», dice tenendo in mano la collana per la preghiera mentre aspetta il tata, un piccolo bus bianco e blu.
Stare a casa per lei sarebbe impossibile. Il confinement, la quarantena totale e forzata, per un Paese che vive nell’informale sarebbe una catastrofe superiore a quella della pandemia.
 
 

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