Articolo di Marcello Poli (Iscos Cisl Emilia Romagna, responsabile dei progetti in Etiopia).
L’11 marzo 2020 l’Organizzazione Mondiale della Sanità dichiarava che l’epidemia da coronavirus COVID-19 aveva coinvolto un numero di Paesi talmente alto da poter essere definita pandemia. Abbiamo ben vive nel ricordo le misure prese in quei giorni in Italia. Ogni giorno portava notizie drammatiche, il numero di persone risultate positive ai tamponi era ancora inferiore ai 10.000 ma aumentava vertiginosamente. Sembrava sempre più evidente che il contenimento del contagio a quei 2 focolai dalle provincie venete e lombarde diventate tristemente note era ormai impossibile. Cominciava la conta giornaliera della Protezione Civile delle persone decedute, si inasprivano le restrizioni e le misure di distanziamento sociale imposte come principale strumento di limitazione del contagio. Per tanti italiani e italiane cominciava la vita di quarantena e distanziamento fisico che ancora oggi stiamo vivendo.
IL PRIMO CASO
Due giorni dopo, il 13 marzo, la Ministra della Salute etiope Lia Tadesse annunciava il primo caso di individuo risultato positivo al tampone COVID-19 nel Paese.
Un uomo di 48 anni, di cittadinanza giapponese, proveniente dal Burkina Faso, atterrato al Bole International Airport la settimana precedente. L’uomo risultava in buone condizioni. Sino ad allora, le misure di prevenzione e preparazione in caso di diffusione del contagio nel Paese erano sembrate molto timide. Nel Paese che conta più di 110 milioni di abitanti, 8 dei quali si ammassano nei tantissimi cafè, ristoranti, condomini, minibus, taxi e centri commerciali della capitale Addis Abeba, le uniche misure prevedevano: check della temperatura ai passeggeri in arrivo all’aeroporto internazionale di Addis Abeba, interruzione dei soli voli provenienti da alcune delle provincie cinesi più colpite, indicazione di un numero di emergenza da chiamare in caso di presenza di sintomi riconducibili al virus, e allestimento di qualche struttura simil-ospedaliera per positivi e sospetti positivi. Nessuna indicazione di distanziamento sociale, nessun blocco produttivo, nessun limite agli spostamenti. La vita frenetica di Addis Abeba continuava e il 22 febbraio Teddy Afro portava decine di migliaia di giovani a ballare e cantare per ore nella Piazza della Rivoluzione.
D’altra parte è tuttora ben presente il ricordo della vita normale in Italia mentre il contagio propagava in Asia; e le partite di calcio giocate in Spagna, i concerti in Inghilterra e gli aggregamenti in Francia mentre dagli ospedali d’Italia saliva forte il grido d’allarme. Non scopriamo certo oggi che la miopia politica (e non solo, beninteso) così come questo coronavirus, non conosce confini nazionali.
LA CHIUSURA
Con le stesse modalità già viste in Italia, il giorno stesso della conferma del primo caso cominciava la caccia a ritroso di tutte le persone che potevano essere entrate in contatto con il “paziente zero”. Lunedì 16 marzo l’Etiopia denunciava il quinto caso positivo e il Primo Ministro Abiy Ahmed annunciava a reti unificate 10 misure di contenimento del contagio valide per le 2 settimane successive.
Le misure includevano: stop agli assembramenti di massa, chiusura delle scuole e delle università, limiti alle aggregazioni per motivi religiosi e di culto, avvio di una campagna di igiene e prevenzione e allocazione di budget straordinario, messa a disposizione di autobus gratuiti per il trasporto pubblico, controllo dei prezzi dei beni di prima necessità.
In linea con quanto visto anche in Italia, ulteriori misure sono state prese nei giorni successivi. La compagnia di bandiera, Ethiopian Airlines, che fino ad allora aveva ridotto al minimo le limitazioni imposte ai voli, ha esteso la lista di Paesi nei quali ha interrotto il servizio, ad oggi 30. È stata imposta una quarantena obbligatoria di 14 giorni per chiunque entrasse nel Paese. Seguendo la strada intrapresa nei giorni precedenti dai Paesi limitrofi (Kenya, Djibouti, Somalia e Sudan), il 22 marzo il governo ha deciso la chiusura dei confini terrestri con i Paesi confinanti, con schieramento dell’esercito lungo i confini per evitare i transiti. Agli uffici pubblici è stata imposta la chiusura se impossibilitati a distribuire i necessari dispositivi di protezione individuale ai dipendenti. Sono state prese alcune misure per ridurre il sovraffollamento delle carceri, tra cui l’ampliamento delle stesse e la scarcerazione di detenuti con reati minori o prossimi alla data di rilascio.
Le varie amministrazioni Statali Regionali hanno inasprito ulteriormente alcune di queste disposizioni. Il Tigray – la Regione a nord del Paese in cui è nato il movimento di liberazione nazionale che ha cacciato il regime dittatoriale all’inizio degli anni ’90, che ha guidato il Paese per i successivi 20 anni e che si trova oggi in aperta opposizione al governo centrale – ha per primo dichiarato lo stato di emergenza, il 26 marzo. La decisione prevede la chiusura ai movimenti tra le città della Regione, dei principali mercati, degli uffici pubblici, di bar e ristoranti, il divieto di assembramenti di carattere religioso e civile. Nei giorni seguenti misure simili sono state adottate anche dalle altre principali Regioni: Amhara, Oromia, Southern Nations Nationalities and Peoples, Afar e la Zona Metropolitana di Dire Dawa.
LA SITUAZIONE
L’ultimo bollettino fornito dal Ministero della Salute e dall’Istituto di Salute Pubblica Etiope dichiara che, al 31 marzo, in Etiopia sono stati realizzati 1013 tamponi: 26 individui sono risultati positivi, 20 dei quali ad Addis Abeba, e 2 risultano essere in condizioni critiche. Il contenimento del contagio continua la logica del tracciamento dei contatti avuti dai soggetti positivi, al 31 marzo sono state individuate 608 persone potenzialmente a rischio. La conta dei positivi è in continuo aggiornamento ma risulta evidente che, con un numero così basso di tamponi realizzati, le possibilità che il contagio sia andato ben oltre i numeri ufficiali sono purtroppo molto alte; così come ipotizzato anche per l’Italia e spiegato in modo molto chiaro in questo articolo di Matteo Villa per ISPI.
E se il sistema sanitario italiano, che rappresenta un’eccellenza mondiale, sta fortemente traballando di fronte ai numeri di questi giorni, il rischio per i cosiddetti low-income countries potrebbe essere davvero impronosticabile. La situazione oggi potrebbe essere molto più grave di quanto finora dichiarato. E stando a quanto emerso in tutto il mondo sulle capacità di resistenza, diffusione e letalità del virus, il rischio che questa diventi a breve disastrosa è purtroppo molto alto.
Il 23 marzo l’Ambasciata d’Italia ad Addis Abeba ha trasmesso una nota per i connazionali nel Paese che fornisce un quadro abbastanza emblematico della situazione. “Il “Piano di Preparazione e Risposta” adottato in data 1 febbraio 2020 prevede un meccanismo di coordinamento tra l’Ufficio del Primo Ministro e le Autorità sanitarie, a cominciare dal Ministero della Salute. (…) Dato l’attuale numero esiguo di tamponi (swabs), in questa fase le Autorità sanitarie etiopiche limitano il ricorso al tampone solo ai casi di sintomatologia accentuata. L’unica struttura che dispone del kit per eseguire il test è l’Ethiopian Public Health Institute di Gulele. (…) In linea con le disposizioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità, l’Istituto di Salute Pubblica Etiopico invita tutte le persone risultate positive al test ma in condizioni di salute stabili e sintomi lievi a rimanere in autoisolamento a casa per 14 giorni. (…) Se la persona positiva vivesse in casa con altre persone, deve isolarsi in stanze dedicate e non condividere nessuno spazio né oggetti con gli altri. (…) Se i sintomi dovessero essere acuti, l’EPHI potrà decidere di spostare il paziente presso uno dei due centri di isolamento appositamente predisposti. (…) Ad Addis Abeba sono stati allestiti due centri di isolamento, presso il St. Peter Specialized Hospital (Entoto) e presso il Yeka Kotebe General Hospital (Kotebe). Le Autorità etiopiche stanno rafforzando le capacità anche presso altre strutture. Negli Stati Regionali non sono ancora stati allestiti centri di isolamento.”
Per avere un’idea più realistica di ciò che questo significa per la popolazione etiope, si consideri anche che la maggioranza della popolazione vive in aree rurali in contesti di povertà talvolta estrema e che la disponibilità di letti d’ospedale è di 3 su 10.000 persone (dato WHO, 2015). Inoltre, per carenza di infrastrutture e abitazioni appropriate, il distanziamento sociale e l’isolamento sono praticamente impossibili da applicare in contesti abitativi rurali e urbani etiopi. Questo tweet racconta in modo sintetico e drammatico la situazione di quarantena ospedaliera attuata nei primi 15 giorni di marzo per sospetti casi positivi.
Il tweet è del 12 marzo, prima che i due centri di Entoto e Kotebe fossero stabiliti e dedicati; purtroppo le indiscrezioni su di essi non sembrano tuttavia migliori.
Il virus è atterrato in Etiopia e, come scrive Marta Guastella in questo pezzo molto equilibrato, Addis Abeba sembra oggi in attesa. In attesa che la spaventosa onda pandemica investa pienamente il Paese e la sua capitale, spina dorsale dell’economia, lasciandoci a fare i conti con quella che molto probabilmente sarà l’impronta ingombrante della sua forza trasformatrice.
Il coronavirus è atterrato in Etiopia
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