Cronache dal parco industriale di Mekele, di Marcello Poli
Una serata al Planet Hotel
Ieri sera ho cenato al ristorante del Planet Hotel, certamente uno dei migliori alberghi di Mekele (capitale della Regione settentrionale dell’Etiopia, Tigray), che mette a disposizione dei propri clienti una considerevole lista di servizi di prima categoria: piscina, palestra, centro SPA, lavanderia, lounge bar, agenzia di viaggi, sala conferenze e tanti altri. Ero con un’amica, due cosce di pollo in salsa barbecue con verdure, una pizza margherita, una birra e un’acqua gasata.
Spesa totale: 715 Birr, equivalenti a circa 20 Euro. Facciamo a metà, e mettiamo nel libretto di pelle utilizzato per lo scambio di denaro, 7 carte da 100 e qualche carta da 10 Birr, senza fare troppo caso alla cifra precisa, in Etiopia si è soliti lasciare qualche mancia per i camerieri, come in Inghilterra. 10 Euro a testa, per una cena nel palazzo più ricco del capoluogo della Regione del Tigray. Non c’è da scandalizzarsi, è risaputo che il costo della vita in Etiopia sia nettamente inferiore rispetto ai nostri standard.
Finita la cena sono tornato a casa con un bajaji, un veicolo a motore a 3 ruote (spesso vecchi apecar della Piaggio di un bel blu acceso) utilizzato in città come taxi, ideale per muoversi agevolmente tra i vicoli ciottolati del centro. Era il turno delle 24 ore senza corrente elettrica in città – che nell’ultimo mese si alternano a 24 ore di luce – ho acceso la torcia (cinese) comprata qualche anno fa ad Addis Abeba e mi sono messo a leggere un libro. Un bel libro, avvincente. Un giallo ambientato a Bologna durante gli anni ‘40.
Incontro con i sindacalisti etiopi
La mattina avevo avuto il piacere di incontrare Molalgn, il capo dell’ufficio territoriale di Mekele della Confederation of Ethiopian Trade Unions (CETU), l’unica confederazione sindacale del Paese, con la quale ISCOS Emilia-Romagna e ISCOS Marche collaborano da una quindicina di anni. A Mekele stiamo realizzando un progetto di cooperazione allo sviluppo che promuove opportunità di impiego dignitoso per categorie vulnerabili, nel settore tessile. Molalgn viene dalla MAA Garment and Textile Factory, una delle sempre più numerose imprese tessili del Tigray, che impiega più di 1.500 operai ed esporta larga parte del materiale prodotto.
Oltre alla MAA Garment, la Almeda Textile Factory e la Sheba Leather operano su media e larga scala nei settori tessile e conciario in Tigray da diverso tempo. A queste, si sono di recente aggiunte: la Velocity Apparel Companies Plc, che fa parte di un gruppo tessile che ha sede a Dubai e attualmente impiega 3.600 operai (per il 95% donne) in un impianto da 54.000 metri quadri, principalmente per l’esportazione; la DBL Company, di proprietà bengalese, che a pieno regime impiegherà 3.000 operai ed è tra i principali fornitori del brand H&M; ITACA Textile Company, che fa parte del gruppo italiano Calzedonia e nell’impianto di Mekele ha in previsione di impiegare circa 2.000 operai. Oltre a queste, nell’area di Mekele, e più precisamente nel Parco Industriale, altri investitori stranieri – principalmente asiatici – hanno aperto recentemente stabilimenti produttivi tra i 500 e i 1.000 operai l’uno.
La strategia di sviluppo del Governo attraverso i Parchi Industriali
I Parchi Industriali sono aree che qualche anno fa il governo etiope ha definito di interesse strategico per l’economia nazionale, affidando all’Ethiopian Investment Commission il compito di crearvi zone economiche speciali, nelle quali investitori nazionali e stranieri possono trovare condizioni di investimento particolarmente vantaggiose: principalmente vantaggi fiscali di import-export e presenza di infrastrutture e vie di collegamento con l’estero (non a caso sorgono vicini ad aeroporti).
Oltre al Parco di Mekele sono oggi attivi altri 3 Parchi Industriali in Etiopia (Hawassa, Bole Lemi ed Adama), e di un’altra decina è prevista l’apertura nei prossimi anni. I Parchi Industriali costituiscono il fiore all’occhiello (e allo stesso tempo un’ottima chiave di lettura) della strategia di industrializzazione del Paese intrapresa dal governo: approccio dirigista classico di uno stato sviluppista costruito sul modello delle Tigri Asiatiche; attrazione di investimenti stranieri quale priorità assoluta; spinta quasi ossessiva all’export; focus sull’industria leggera, in grado di impiegare tanta manodopera con un investimento ridotto di capitale; ruolo chiave (e ambiguo) dell’aiuto allo sviluppo internazionale, che mediante una partnership pubblico/privato supporta la creazione dei Parchi e facilita la delocalizzazione di imprese del proprio Paese.
Salari e condizioni di lavoro nella nuova fabbrica del mondo
Che avvenga all’interno di un Parco Industriale o meno, l’investimento straniero in settori quali il tessile, il conciario e l’agrotrasformativo in Etiopia trova un elemento di assoluto vantaggio comparato: il costo del lavoro. Statistiche recenti (si veda ad esempio lo studio pubblicato da NYU Stern Center for Business and Human Rights a maggio 2019) mostrano che lo stipendio base degli operai e delle operaie di diversi comparti industriali (circa il 30% in quello tessile secondo IndustriALL) è molto spesso inferiore ai 1.000 Birr al mese, circa 30 €. La cifra trova riscontro in diversi articoli pubblicati negli ultimi mesi da IndustriALL, Addis Fortune, Avvenire e Valori, e mi è stata confermata da rappresentanti sindacali e lavoratori che ho avuto modo di conoscere ed intervistare di recente.
30 € al mese (o meno) a fronte di 40 ore di lavoro (o più) a settimana, contratti collettivi di categoria e aziendali spesso mancanti o non applicati, soggetti a discriminazioni di genere ed etniche, condizioni di lavoro insicure, spesso nocive per la salute, precarie e dipendenti da capacità negoziali del singolo.
Aspettative sindacali di riforma
Un lavoro di concertazione tripartita tra il sindacato etiope, il Ministero del Lavoro e degli Affari Sociali e l’associazione degli imprenditori etiopi ha portato ad una proposta di riforma della legge sul lavoro 377/2003, che è in attesa di approvazione parlamentare definitiva.
Come dichiarato da Tessema Heramo e Kassahun Follo, rispettivamente Education and Training Department Head e President del CETU, la proposta prevede alcune modifiche di rilievo per l’intera legislazione sul lavoro con un potenziale impatto molto positivo per i lavoratori dipendenti, tra cui l’inserimento di un salario minimo garantito per tutte le categorie, oggi assente.
Le aspettative da parte del CETU sono molto alte: tutte le proposte fatte in sede di tavolo negoziale sono state inserite nelle proposta di riforma, tra cui anche l’estensione di una mensilità dell’indennità di maternità (4 complessive). “Un estensione fondamentale per le lavoratrici, nel percorso verso l’effettiva parità di genere” ha dichiarato Rahel Ayele, Women’s Affairs Department Head del CETU.
Ma allo stato attuale, le aspettative restano solo tali. Il sindacato si confronta quotidianamente con una realtà nella quale operai ed operaie etiopi sono soggetti e soggette a paghe drammaticamente basse e condizioni di lavoro precarie. In aggiunta, la libertà di associazione sindacale, garantita dall’articolo 42 della Costituzione e dalle Convenzioni 87 e 98 dell’ILO, entrambe ratificate dall’Etiopia, non è applicabile alle aziende dei Parchi Industriali, e trova effettiva ostruzione all’interno di una buona parte delle imprese straniere che si sono recentemente stabilite nel Paese.
Nonostante la legge lo garantisca, spesso al sindacato etiope non viene concesso di mettersi in contatto con i lavoratori, di organizzare assemblee e formazioni, o di creare comitati sindacali di base. E né le autorità governative locali, né quelle federali, garantiscono il rispetto della legge.
Tra le opportunità di impiego e profitto offerte dall’arrivo di ingenti investimenti stranieri, e la difesa del diritto di un lavoro dignitoso mediante associazione sindacale e negoziazione di contratti collettivi, la prassi politica degli ultimi anni non ha avuto dubbi, e ha preferito sperare nella profittabilità immediata di offrire una fonte di reddito a decine di migliaia di posti di lavoro. Ma i posti di lavoro, le mastodontiche cattedrali produttive, e i significativi redditi da esportazione creati, non hanno portato ad alcuna redistribuzione equa dei profitti. Anzi, gli artefici materiali di tali profitti, i lavoratori e le lavoratrici impiegate, ne stanno pagando un caro prezzo.
I primi scioperi spontanei e il diritto alla libertà di associazione e contrattazione collettiva
Lo scorso marzo, lavoratori e lavoratrici tessili del Parco Industriale di Hawassa – tra i più grandi del Paese, destinato ad ospitare più di 20 aziende e 60.000 operai una volta raggiunta la piena operatività – in 2 occasioni e per diversi giorni hanno bloccato la produzione e organizzato autonomamente scioperi per richiedere, il miglioramento delle condizioni di salute e sicurezza, arginare la diffusissima pratica delle molestie sessuali e delle discriminazioni di genere sul posto di lavoro (le lavoratrici donne sono una larghissima maggioranza nel settore tessile), la possibilità di creare comitati sindacali in azienda e l’aumento dei salari, che nel Parco raggiungono l’inqualificabile soglia di 750 Birr al mese, equivalenti a circa 26 euro. Altri scioperi hanno avuto luogo nel Parco di Bole Lemi a maggio, dove operano circa 15 aziende.
Gli scioperi, organizzati spontaneamente dai lavoratori, hanno decisamente spiazzato i dirigenti e le proprietà delle aziende coinvolte, giunte in Etiopia proprio per sfruttare le possibilità di bassi costi di produzione promossi e garantiti a gran voce dal governo etiope. Gli scioperi hanno portato alla convocazione di un tavolo tra le parti sociali, durante il quale il CETU è riuscito ad ottenere per la prima volta l’impegno da parte del governo a garantire la libertà di associazione per i lavoratori anche nelle aziende dei Parchi Industriali.
Sono state necessarie diverse giornate di tensione e duro scontro, durante le quali i lavoratori e le lavoratrici etiopi hanno dimostrato capacità di organizzazione e rivendicazione dei propri diritti, ma soprattutto dignità. Il sindacato da parte sua è riuscito a lavorare intensamente su più fronti, e ad ottenere un risultato effettivamente insperato fino a pochi mesi fa.
Fermare la corsa al ribasso imposta da una globalizzazione a vantaggio esclusivo di pochi
Il Governo etiope, che nonostante il rinnovato percorso di democratizzazione iniziato lo scorso anno con il cambio del Primo Ministro, non sembra oggi godere della sperata legittimità popolare, ha preferito (questa volta) la carota al bastone nell’applicazione della narrativa paternalistica che tradizionalmente ne caratterizza l’agenda sviluppista.
Il popolo etiope, giovane e in forte crescita da diversi punti di vista (demografico ed educativo su tutti) necessita certamente di una transizione economica in grado di supportare tale crescita e renderla sostenibile. Il settore agricolo – che ancora genera reddito per oltre l’80% della popolazione – non è stato in grado finora di realizzare lo sviluppo sperato, e non sembra in grado di invertire la rotta nell’immediato futuro.
Per decenni l’industrializzazione è stata una strategia chiave di sviluppo economico e riduzione della povertà nell’agenda politica etiope, e nonostante un cammino molto incerto, qualcosa si sta muovendo. Questo avviene all’interno di un processo globale di internazionalizzazione delle relazioni di produzione e di mercato, che punta a sfruttare le migliori possibilità di profitto offerte, appunto, a livello globale.
In questo contesto, i paesi in via di sviluppo come l’Etiopia emergono come destinazioni preferenziali per produzioni di massa. Ma questa corsa al ribasso ha un prezzo, e questo prezzo in Etiopia lo stanno pagando le decine di migliaia di operaie che ogni giorno lavorano il pellame in condizioni disumane, che cuciono e tessono a ritmi serrati, che subiscono maltrattamenti e molestie, che per anni affollano stanze da 8-10 persone in dormitori costruiti a poche centinaia di metri dagli stabilimenti produttivi, che perdono il lavoro se si assentano per più di 3 mesi in caso di maternità, … per una paga giornaliera che è meno della metà di quel 1,90 $ che viene tipicamente utilizzato per definire la soglia di povertà.
Ripensando alla cena al Planet Hotel
Ieri sera con 10 € ho mangiato bene al Planet Hotel: carne e contorno di qualità, pizza buona, ho lasciato anche qualche mancia ai camerieri. Perché è un po’ questa la narrazione preponderante di questi tempi. Se ne abbiamo la possibilità facciamo giustamente attenzione a ciò che mangiamo. Talvolta ci preoccupiamo della provenienza, altre volte delle modalità di allevamento, coltivazione o trasformazione utilizzate, e magari riflettiamo sull’impatto ambientale che queste generano.
Finalmente si sta diffondendo una crescente sensibilità nei confronti della filiera agro-alimentare; e siamo disposti a spendere un po’ di più per garantirci un prodotto che rispetti determinati standard che consideriamo necessari o eticamente giusti. Finalmente. Ma utilizziamo la stessa cura nello scegliere ciò che indossiamo? Siamo consapevoli del peso che hanno le nostre scelte in tutte le dimensioni del nostro essere consumatori? Pensiamo mai a chi sta dietro il nostro risparmio in una t-shirt a 2,99 €, un prezzo ribassato, un 3×2, o un Black Friday?
Ieri sera ho speso quasi metà di uno stipendio mensile in una cena. E mi è rimasta sullo stomaco.
Made in Etiopia: tra marchi globali e bassi salari
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