Il Burundi è uno dei Paesi più poveri del mondo dove più del 50% della popolazione vive sotto la soglia di povertà e la sopravvivenza stessa delle persone è a rischio. È durante l’epoca della colonizzazione, prima tedesca e poi belga, che, secondo gli storici, nascono quei conflitti etnici che dal 1994 al 2006 hanno portato Hutu e Tutsi, le due etnie più numerose, a insanguinare il paese con una guerra civile di cui ancora non si è spenta l’eco.
La provincia di Rutana, confinante con la Tanzania, era, fino a pochi anni fa, il luogo di produzione della colocasia per l’intero paese. Tubero fondamentale nella dieta alimentare burundese, la colocasia costituisce, insieme alla manioca, alla patata dolce e alla banana, una fonte alimentare e di reddito per la popolazione rurale. Negli ultimi anni la cocolasia era stata annientata da una malattia.
Con un intervento mirato, progettato e attuato insieme all’associazione locale Biraturaba e cofinanziato dalla Commissione Europea, si è deciso di intervenire per aumentare il livello di sicurezza alimentare della popolazione di Rutana, nel comune di Ghiaro, con particolare attenzione alle famiglie di sfollati interni. Il progetto ha infatti coinvolto una popolazione per la maggioranza costituita da persone fuggite dagli orrori della guerra e tornate nel proprio paese d’origine dopo aver trascorso alcuni anni nei campi profughi della vicina Tanzania.
Lo sforzo congiunto del gruppo di lavoro, composto dal cooperante espatriato e dal personale locale messo a disposizione da Biraturaba, ha trasformato un progetto, che inizialmente era di assistenza, in un progetto di sviluppo. Le piantine utilizzate, pur non essendo geneticamente modificate, sono resistenti alla malattia grazie alla coltivazione in serra e hanno permesso il rilancio della produzione.
In 34 mesi di attività, sono state prodotte circa 2 milioni e 300.000 piantine di cui 1 milione e 700.000 sono state diffuse tra i gruppi più vulnerabili mentre 500.000 sono state utilizzate per la produzione e la commercializzazione.
Il progetto ha coinvolto oltre 700 produttori, di cui il 62% donne, raggruppati in 52 associazioni e ha beneficiato oltre 6 mila famiglie vulnerabili, fra cui molte appartenenti alla minoranza etnica dei Batwa, consentendo così l’accesso al cibo e creando una fonte continuativa di reddito.